Si continua a parlare dell’importanza del mental coach, ma sono davvero pochi i calciatori professionisti che se ne avvalgono.
Qualche tempo fa sembrava che, sulla falsariga di quanto avviene nei paesi anglosassoni, anche in Italia il fenomeno fosse sul punto di esplodere, ma l’impressione è che si stia vivendo una fase di stallo a differenza, ad esempio, di quanto avviene in campo aziendale in cui l’intervento del mental coach sta diventando consuetudine. Idem in campo artistico, dove cresce costantemente il numero di cantanti, attori e performer che decidono di investire su stessi per esprimere il cento per cento del loro potenziale.
Sul tema sono stato intervistato da un giornalista inglese e, quindi, ho avuto modo di fare alcune riflessioni che sottopongo alla vostra attenzione.
1) In Italia il panorama dei mental coach sportivi è caratterizzato da figure discutibili e improvvisate, prive sia di una laurea sia di una formazione ad hoc, che inquinano il mercato con prestazioni pessime e richieste economiche folli.
2) Le squadre di calcio, al momento, continuano a vedere come il fumo negli occhi qualsiasi intervento di un professionista della mente. Sbandierano l’importanza della “testa”, ma a parte qualche rara eccezione (ad esempio la Juventus), preferiscono affidare i compiti psicologici ad allenatori, amici degli amici, massaggiatori, magazzinieri ecc
3) I mental coach più conosciuti e gettonati sono quelli più forti dal punto di vista mediatico, senza specializzazioni e competenze precise, ma presenti in libreria e su palchi in cui, di fatto, insegnano tecniche di vendita o illusorie strategie di benessere.
4) I calciatori che lavorano proficuamente con un mental coach fanno poco passaparola perché, in una cultura di tipo “machista”, tendono a vergognarsi di raccontare di avvalersi di un professionista della mente (l’idea prevalente, purtroppo, è che chiedere aiuto a qualcuno invece di essere sintomo di maturità sia sintomo di debolezza). Non capita lo stesso in altri sport, basti pensare a Matteo Berrettini, numero 8 del tennis mondiale, che a ogni piè sospinto cita il suo mental coach e l’importanza del lavoro mentale
5) I calciatori che non hanno un mental coach ma vorrebbero averlo non sanno a chi indirizzarsi, anche e soprattutto a causa di un mondo web che dà la parola a chiunque, in primo luogo ai ciarlatani
6) Continua a regnare una grandissima confusione tra la figura di mental coach (un “ottimizzatore della performance”) e quella di psicoterapeuta
7) I giocatori più interessati all’allenamento mentale militano nelle categorie inferiori, spesso sono dilettanti, e purtroppo non dispongono delle risorse economiche per fare fronte all’impegno
8) I giocatori delle categorie maggiori, al contrario, sono soddisfatti della loro situazione professionale, diffidano delle novità e faticano a sopportare l’idea che il miglioramento sia un onere quotidiano che richiede fatica e riguarda non solo gli aspetti tecnici, ma soprattutto gli aspetti legati all’atteggiamento, alla motivazione e alla forza mentale
Insomma, a mio avviso lo stallo è generato da un insieme di fattori che coinvolge tutti gli attori in gioco: in primis i mental coach, troppo spesso esageratamente esosi e senza la necessaria competenza (sarebbe il momento di istituire un albo caratterizzato da severi requisiti d’iscrizione). In secondo luogo le squadre di calcio, ancora ferme a logiche “autarchiche” e obsolete degne del Mago Herrera (con tutto il rispetto per il mitico Mago e per il tempo che fu); in terzo luogo i media, prontissimi a raccontare ogni pettegolezzo relativo ai divi del pallone, ma restii ad affrontare argomenti innovativi come l’importanza della psicologia sportiva; infine i calciatori, che a volte per paura e altre per mancanza di lungimiranza, non fanno nulla per contribuire a far crescere l’ambiente in cui operano.