Al Torino un mental coach non servirebbe a nulla

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Al Torino un mental coach non servirebbe a nulla

mazzarri

Come molti di voi sanno, sono un tifoso del Toro. Inutile dirvi che sono ancora choccato per la demenziale e terrificante sconfitta subita contro la straordinaria Atalanta di Gasperini e Percassi.
Le responsabilità di Cairo e di Mazzarri sono talmente grandi che, attaccarli dopo la disfatta appena subita, è un po’ come sparare sulla croce rossa. Non è necessario essere Sigmund Freud per capire che una squadra che perde 7-0 è completamente devitalizzata a livello psicologico. Non è necessario essere Freud per capire che Mazzarri e la sua cultura dell’alibi sono ciò che di peggio poteva accadere in un contesto sportivo che, dopo la gloria dei suoi primi novant’anni di storia, ha strutturato un dna perdente; o che il Meitè “pascolante” o il Verdi sempre più simile a Forrest Gump o l’Izzo sempre più interessato ai social e alle camice di Versace avrebbero bisogno di un supporto psicologico.
La batosta di ieri, peraltro, mi fatto fare una riflessione che ai più può sembrare paradossale: al Torino un mental coach non servirebbe a nulla. Ne servirebbero una dozzina. Sarebbe necessario costituire una rete e una struttura di psicologi e mental coach che, a partire dalla Scuola Calcio fino alla prima squadra, seguisse tutti i tesserati (allenatori compresi). Il singolo mental coach, in una società priva di una “cultura della mente” a 360 gradi, fa lo stesso effetto del disperato che tenta di svuotare il mare con un secchiello.
Non credo alla figura “magica” del singolo mental coach chiamato al capezzale della squadra come un santone. Anzi, sinceramente mi fa ridere. So che molte squadre lo fanno nei momenti di difficoltà, una specie di ultima spiaggia, come andare dal cartomante od organizzare una gita a Lourdes. Credetemi; serietà e scientificità stanno altrove. La chiamata del guaritore a pochi centimetri del baratro serve solo a gonfiare le tasche del prescelto, tasche già di per sé piuttosto gonfie in quanto i prescelti sono quasi sempre personaggi che passano le loro giornate in aula o sui palchi di tutta Italia a vendere ottimismo a buon mercato.
Il discorso è molto più complesso: psicologi e mental coach devono entrare a pieno titolo nella struttura di una società allo stesso modo di medici, preparatori atletici, dietologi, fisioterapisti, allenatori ecc. Cosi come a tecnica e tattica pensano gli allenatori, così come alla forma fisica pensano i preparatori, è necessario avvalersi di professionisti che allenino la mente. Si parla sempre più dell’importanza della mente nello sport, ma si continua a non fare nulla e a delegare i compiti formativi alle bestemmie del tecnico o di un suo uomo di fiducia. Al proposito (mi duole dirlo!) l’unica squadra italiana all’avanguardia è la Juventus, dove esiste una vera e propria struttura di psicologi (una quindicina di professionisti) coordinata dal professor Vercelli (anche responsabile della Nazionale italiana di Sci), incaricata di supportare e ottimizzare le performance di tutti i tesserati attraverso un modello scientifico di prestazionalità chimato S.F.E.R.A e messo a punto dal Centro Sportivo di Psicologia dell’Universita di Torino. In tutte le altre altre società italiane non credo neanche sappiano di cosa di cosa si tratti o, se lo sanno, fanno spallucce. Il fatto che nel 2020 nessuno pensi che il calcio vada affrontato anche dal punto di vista mentale è grave. A differenza di quanto pensa Gattuso, non funziona più entrare nello spogliatoio e urlare “tirate fuori gli attrubuti!” ai giocatori. Il discorso va fatto a più livelli, con uno staff di esperti che inizi a lavorare già dalle giovanili.
Uno staff di supporto psicologico è fondamentale per il ragazzino di 13 anni pieno di talento ma, magari, alle prese con grossi problemi di ansia e relazione. E’ fondamentale per il ragazzo che viene da lontano e, in un momento strategico della sua vita come quello rappresentato dall’adolescenza, si trova costretto a vivere a mille chilometri da casa, disorientato, impaurito, con una nostalgia struggente degli odori e degli affetti di casa. E’ fondamentale per supportare il lavoro degli allenatori, che per ovvi motivi non possono conoscere, oltre a tecniche e schemi, anche i fondamenti della psicologia evolutiva. Infine, sarebbe utilissimo per armonizzare il lavoro di tutti i tecnici di una società (dal mister degli esordienti a quello della prima squadra), i quali potrebbero cooperare sulla base dello stesso nucleo di input relazionali, comunicazionali e motivazionali.
Inutile nasconderlo; la crescita di una società passa anche da una crescita culturale. Nel Torino (ma in quasi tutte le altre società calcistiche italiane) urge una rivoluzione copernicana. L’ultimo ventennio sportivo è stato caratterizzato dall’importanza preponderante che hanno assunto la psicologia e l’alimentazione: della prima abbiamo appena detto, della seconda, per rimanere al Torino, ci basti osservare che è l’unica squadra professionistica priva di una mensa. Insomma, al posto degli psicologi, nessuno o gli amici degli amici; al posto della mensa, kebab e pizze a volontà.

Marco Cassardo
Marco Cassardo
è scrittore e mental coach dei calciatori. Si è formato in Coaching e Programmazione Neurolinguistca (PNL) conseguendo i titoli di Coach Certificato ICF (International Coach Federation) e Master Practitioner in PNL. Ha scritto il saggio sportivo "Belli e dannati" (Limina, 1998, 2003) e tre romanzi: "Va a finire che nevica" (Cairo 2007), "Mi manca il rosso" (Cairo 2009),"Un uomo allegro" (Miraviglia Editore, 2014). Nel marzo 2016 è uscito il suo libro dedicato all'allenamento mentale dei calciatori: "Campioni si diventa" (Cairo).

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